MARCO BIANCHI: 
            RECHERCHES 
          Marco 
            Bianchi ha pressappoco la mia età. Ha quattro anni meno di 
            mio padre e uno dei suoi figli è più grande di me. Ma 
            quando tra vent'anni, e succederà, si tornerà a parlare 
            di lui, le cose non saranno cambiate.
            Questo perché Bianchi si è fermato a lungo nell'immaturità, 
            tra la pre- e la post- adolescenza. Per chi capisce, e conosce il 
            contesto, la pittura, questo è un buon complimento. A tutti 
            gli altri, quelli che non possono perdere tempo, non basterà 
            certo questo piccolo testo, non servirà sfogliare velocemente 
            il catalogo. Eppure, ironia della sorte, ogni catalogo di Bianchi 
            si presta a essere sfogliato velocemente. I suoi quadri parlano di 
            una ricerca onesta e ingenua che resta più o meno lì, 
            in quella adolescenza che si diceva, a testimonianza di tanti stati 
            d'animo. Tanti arrivi, tante partenze, tanti ritorni. E tutto senza 
            muoversi. Poi il tempo passa e gli altri crescano pure. Per lui fermarsi 
            e formarsi conservano ancora lo stesso suono. 
            Dino Carlesi ha già parlato della sua adolescenza (1992), di 
            tutti gli stimoli che si ricevono nel bighellonare tra i vecchi hangar 
            del carnevale e la ferrovia, della stazione e dei treni arrugginiti 
            su binari morti per tutti tranne che per i ragazzi che ci vanno a 
            giocare. Di come tutto questo fosse colori e superfici che con calma 
            emergeranno nei suoi quadri. E ancora, di Santini e altri pittori 
            viareggini, dei loro soggetti carnevaleschi, di straccali marini, 
            di forme disegnate con tratto forte e di sfumati a carboncino che 
            incassano questi soggetti in un'atmosfera cupa e un po' vianesca, 
            canto propiziatorio al "crudo dell'inverno", rovescio delle 
            mete estive, di sole e spensieratezza.
            Ma per parlare della nostra storia, quella di Bianchi, i toni lirici 
            di un'origine versiliese servono solo a incorniciare un diploma all'Istituto 
            Stagi di Pietrasanta in "Decorazione, plastica, scultura, disegno". 
            Sono le cardinalità biografiche di un'adolescenza e le coordinate 
            geografiche di riferimento in bilico tra il luogo comune e l'obbligo 
            di menzione.
            Parlare dell'aspetto immaturo, o immaturato, di Marco Bianchi non 
            significa evocare l'infanzia felice, la buona scuola di vita, il legame 
            romantico a una tradizione artistica "sana" (termine del 
            quale è bene diffidare). L'immaturità di cui stiamo 
            parlando è la troppa curiosità per le cose, talmente 
            eccessiva da non saper diventare neanche la nuova soluzione grafica 
            accattivante e di stagione che va rinnovata al prossimo cambio di 
            vento. Sono le cose in sé che devono interessare e sono gli 
            occhi interessati a restituire agli altri cose interessanti: quadri, 
            in questo caso. 
            Bianchi sceglie un linguaggio espressivo che quando non è astratto 
            sgretola il figurativo da cui parte. Quando i suoi torsi smettono 
            di frastagliarsi di tanti tagli di colore che ne accentuano l'impressione 
            scultorea, il campo cromatico si distende sulla superficie trasportando 
            l'impressione materica di una lastra, di un'asse. Una composizione 
            a collage polimaterico che è, invece, tutta pittura. Sono queste 
            le fiancate dei vecchi vagoni a cui si riferiva prima Carlesi. E sono 
            questi anche i vecchi impostoni invernali degli stabilimenti balneari 
            di una volta o dei vecchi hangar; tavole e legni di recupero di colore 
            diverso inchiodati tra loro alla meno peggio.
            Il processo d'indagine e la conseguente soluzione compositiva non 
            sono nuovi, non lo vogliono essere e non ne hanno bisogno, e al riguardo 
            è già stato fatto più volte il nome di Alberto 
            Burri e, da Carlesi, anche quello di Giuseppe Santomaso. Riferimenti 
            giustissimi che potrebbero anche togliere un poco di interesse alle 
            opere di Marco Bianchi se questi fosse stato al loro fianco per convenienza 
            di visibilità nell'immaginaria fotografia di gruppo di questa 
            pagina della storia dell'arte italiana. Ma l'onestà che gli 
            si attribuiva risiede proprio nell'aver scelto coscientemente e individualmente 
            un personale referente artistico; quel modo di trasportare l'oggetto 
            e la materia dentro la pittura per essere il presente, ma incantato 
            e trasognato. E questo senza nutrire la sua composizione con i temi 
            della cronaca nazionale, dei logo sui quali si scontrava e si scontra 
            ogni presente. 
            In un accostamento allestitivo particolarmente felice della mostra 
            Italics, Francesco Bonami affianca i catrami di Burri screpolati 
            sulla tela alle fotografie d'autore di delitti di mafia degli anni 
            Settanta: nero il catrame; nero quel sangue versato ovunque, sui visi, 
            nei sedili delle auto, sull'asfalto. Per Bianchi i grandi campi di 
            color ruggine non sono né l'Ansaldo né la SEC, universo 
            della siderurgia pesante, ma una realtà del quotidiano fatta 
            di tempi sospesi e fluttuanti che saldano le cose e i paesaggi che 
            lo circondano a pensieri e sensazioni. Sono stati d'animo che si ripresentano 
            senza chiara continuità di tempo dove è possibile ritrovarsi, 
            avere conferme piuttosto che spiegazioni. 
            
          
          MARCO 
            DEL MONTE 
          Venezia, 
            maggio 2009